6. Dal breve al brevissimo
6.9 La strada per la viralità

Ci sono formule matematiche che cercano di spiegare il tasso di conversione di meccanismi di diffusione virale, una la vedremo tra poco. Prima però vale la pena cercare di dare una dimensione a cosa si intende con la parola virale. Pensate a un contenuto a cui avete partecipato o che avete prodotto voi stessi, quali sono le tappe del suo viaggio verso un pubblico il più ampio possibile?
Prima di tutto lo posterete nella vostra cerchia di amici o nella pagina del brand per cui lavorate, magari inviandolo in un secondo momento via mail a chi pensate possa essere interessato. Arriverete a proporlo a qualche influencer che ne possa decretare il successo verso un pubblico più ampio. Questo primo passo si chiama seeding, state piantando un seme nella speranza che questo cresca fino a diventare un albero.
Il secondo scalino si supera quando ciò che avete diffuso direttamente o attraverso la vostra cerchia più ristretta germoglia. Le persone giudicano il contenuto valido, ne apprezzano la natura e a loro volta decidono di diffonderlo così come fatto già da voi in prima battuta moltiplicando la visibilità in maniera massiccia. Questa seconda fase di espansione di un’informazione attraverso una cerchia più larga è quella che chiamiamo di propagazione. A questo punto un gran numero di persone ha ascoltato, letto o osservato ciò che avete proposto ma il loro numero è ancora limitato, il contenuto non è ancora virale perché non è entrato realmente in una dimensione incontrollabile.
Il terzo passaggio è quello della diffusione incontrollata, per cui ogni singola persona che entra a contatto con quella precisa informazione decide di diffonderla al proprio network provocando un allargamento incalcolabile e una crescita verticale delle persone che vengono raggiunte da un messaggio. Il contenuto stesso è il tema del giorno e condividerlo significa entrare a far parte di una conversazione condivisa generale. In casi estremi il contenuto di partenza diventa un meme, si allontana così tanto dal suo punto d’origine da trasformarsi in qualcosa di completamente diverso assumendo connotati a cui non avevate pensato inizialmente. Se non fossimo online si parlerebbe di un tormentone, come un motivo musicale o una moda. Nel caso dell’ecosistema online però i soggetti coinvolti non rimangono passivi ma tendono ad alterarne la struttura a seconda dei propri gusti e necessità.
La formula che descrive il fenomeno, tornata di moda ai tempi della pandemia, è la stessa della diffusione di un virus: R = b x z. Dove R è il tasso di riproduzione (nuova infezioni per ognuna esistente), b è la probabilità di infezione e z è la quantità di persone che possono entrare in contatto. A metterla per iscritto, nella Harvard Business Review, ci aveva pensato sempre Jonah Peretti molti anni fa, il primo a studiare e applicare scientificamente questi concetti al mondo dell’informazione digitale, ammettendo però che non tutto è prevedibile a tavolino. «Per trovare cosa funziona facciamo continuamente degli A/B test» ammetteva già al tempo, perché «non sappiamo davvero cos’è che funziona». Pensare di poter creare un contenuto virale o addirittura un meme a tavolino è lo sbaglio più grande che si possa fare e tante aziende o agenzie continuano a commetterlo ogni giorno. Un meme è qualcosa che per sua natura si ribella alla volontà del costruttore come un Golem, ed è un errore imperdonabile pensare di poterlo allevare e addomesticare. Sarà il pubblico a decretarne la nascita e il successo, spesso senza neanche accorgersene.
A mettere in fila il concetto di virus, viralità e meme con estrema precisione è l’analista Ben Thompson che nel suo famoso blog Stratechery scrive: «Si è scoperto che il senso letterale di ‘diventare virale’ era, in effetti, più esatto del suo significato iniziale di un immagine o video diffusi in maniera molto estesa. Come un vero virus muta nel momento in cui si diffonde, così l’articolo o l’immagine o il video di partenza diventa quasi irriconoscibile nel momento in cui diventa virale, perché si è ormai trasformato in un meme». Le parole più giuste a questo proposito sono quelle di chi le notizie virali le crea per passione (attenzione: non per lavoro) costruendo bufale capaci di intrufolarsi in un danneggiatissimo sistema informativo. Ermes Maiolica è la persona dietro giganteschi racconti fake come quello delle 800.000 Volkswagen regalate online, il crollo del ponte sulla Salerno Reggio-Calabria o la moglie di Renzi che lo avrebbe contraddetto votando No al referendum che ne decretò la caduta. Intervistato anni fa sulle pagine di Wired, dimostrava di avere chiara la natura imperscrutabile del proprio hobby: «Con il tempo ho capito che in realtà nemmeno servono canali di divulgazione, perché se una notizia va, va da sola, non ha bisogno di essere spinta. Queste cose sulle strategie della comunicazione non si finiranno mai di studiare perché, in fondo, è magia».
Tra i meme più efficaci dell’intero ecosistema digitale ci sono anche le teorie del complotto, prima tra tutti QAnon, che qualcuno ha giustamente definito la più grande narrazione della storia occidentale dell’ultimo secolo. Il meccanismo alla base della diffusione virale delle news che Maiolica definisce “magico” fa il paio col pensiero esoterico su cui si fondano tante credenze che prendono piede nelle piattaforme social. Il ricercatore Marc-André Argentino ha parlato di QAnon proprio come di una iper-religione cioè di «un simulacro di religione che forma i suoi precetti attingendo dalla cultura popolare, con la quale vive in uno stato di simbiosi», secondo la definizione del termine coniata dal sociologo Adam Possamai. Si rincorrono infatti nello scheletro di questa teoria del complotto rimandi a serie cinematografiche mainstream come Matrix (“la pillola rossa”) o Paura e delirio a Las Vegas (la loro fissa per l’Adrenocromo). Dopo la tanto discussa morte di Dio, insomma, narrazioni globali e misteriche come questa sembrano l’ultimo spazio concesso al discorso attorno al metafisico e all’invisibile. Non è una sorpresa, dunque, che tanti orfani della religione ci si buttino a capofitto.
Avvenimenti, fatti e teorie spiegate attraverso i sentimenti invece che con una logica stringente. Un sistema empatico che permette a persone tra loro simili, spesso affette dalle stesse carenze educative o affettive, di trovare una risposta semplice a un mondo complesso e risolvere così le proprie crisi esistenziali e dare un senso compiuto alla caotica esistenza che ci troviamo a vivere.
Diventa più facile affrontare la giornata pensando che una grande casa automobilistica voglia regalarci su Facebook una delle sue macchine così come lo è se siamo convinti che tutti i politici che disprezziamo fanno parte di una setta di vampiri pedofili che rapisce i bambini per bere il loro sangue. Nessuna di queste cose è vera ma intanto siamo riusciti a fare gruppo (o forse branco) con i nostri simili, sentendoci meno soli e trovando un ponte di comunicazione verso il mondo esterno. Quella della viralità non è una formula matematica, ma una costruzione emotiva.
Prima di tutto lo posterete nella vostra cerchia di amici o nella pagina del brand per cui lavorate, magari inviandolo in un secondo momento via mail a chi pensate possa essere interessato. Arriverete a proporlo a qualche influencer che ne possa decretare il successo verso un pubblico più ampio. Questo primo passo si chiama seeding, state piantando un seme nella speranza che questo cresca fino a diventare un albero.
Il secondo scalino si supera quando ciò che avete diffuso direttamente o attraverso la vostra cerchia più ristretta germoglia. Le persone giudicano il contenuto valido, ne apprezzano la natura e a loro volta decidono di diffonderlo così come fatto già da voi in prima battuta moltiplicando la visibilità in maniera massiccia. Questa seconda fase di espansione di un’informazione attraverso una cerchia più larga è quella che chiamiamo di propagazione. A questo punto un gran numero di persone ha ascoltato, letto o osservato ciò che avete proposto ma il loro numero è ancora limitato, il contenuto non è ancora virale perché non è entrato realmente in una dimensione incontrollabile.
Il terzo passaggio è quello della diffusione incontrollata, per cui ogni singola persona che entra a contatto con quella precisa informazione decide di diffonderla al proprio network provocando un allargamento incalcolabile e una crescita verticale delle persone che vengono raggiunte da un messaggio. Il contenuto stesso è il tema del giorno e condividerlo significa entrare a far parte di una conversazione condivisa generale. In casi estremi il contenuto di partenza diventa un meme, si allontana così tanto dal suo punto d’origine da trasformarsi in qualcosa di completamente diverso assumendo connotati a cui non avevate pensato inizialmente. Se non fossimo online si parlerebbe di un tormentone, come un motivo musicale o una moda. Nel caso dell’ecosistema online però i soggetti coinvolti non rimangono passivi ma tendono ad alterarne la struttura a seconda dei propri gusti e necessità.
La formula che descrive il fenomeno, tornata di moda ai tempi della pandemia, è la stessa della diffusione di un virus: R = b x z. Dove R è il tasso di riproduzione (nuova infezioni per ognuna esistente), b è la probabilità di infezione e z è la quantità di persone che possono entrare in contatto. A metterla per iscritto, nella Harvard Business Review, ci aveva pensato sempre Jonah Peretti molti anni fa, il primo a studiare e applicare scientificamente questi concetti al mondo dell’informazione digitale, ammettendo però che non tutto è prevedibile a tavolino. «Per trovare cosa funziona facciamo continuamente degli A/B test» ammetteva già al tempo, perché «non sappiamo davvero cos’è che funziona». Pensare di poter creare un contenuto virale o addirittura un meme a tavolino è lo sbaglio più grande che si possa fare e tante aziende o agenzie continuano a commetterlo ogni giorno. Un meme è qualcosa che per sua natura si ribella alla volontà del costruttore come un Golem, ed è un errore imperdonabile pensare di poterlo allevare e addomesticare. Sarà il pubblico a decretarne la nascita e il successo, spesso senza neanche accorgersene.
A mettere in fila il concetto di virus, viralità e meme con estrema precisione è l’analista Ben Thompson che nel suo famoso blog Stratechery scrive: «Si è scoperto che il senso letterale di ‘diventare virale’ era, in effetti, più esatto del suo significato iniziale di un immagine o video diffusi in maniera molto estesa. Come un vero virus muta nel momento in cui si diffonde, così l’articolo o l’immagine o il video di partenza diventa quasi irriconoscibile nel momento in cui diventa virale, perché si è ormai trasformato in un meme». Le parole più giuste a questo proposito sono quelle di chi le notizie virali le crea per passione (attenzione: non per lavoro) costruendo bufale capaci di intrufolarsi in un danneggiatissimo sistema informativo. Ermes Maiolica è la persona dietro giganteschi racconti fake come quello delle 800.000 Volkswagen regalate online, il crollo del ponte sulla Salerno Reggio-Calabria o la moglie di Renzi che lo avrebbe contraddetto votando No al referendum che ne decretò la caduta. Intervistato anni fa sulle pagine di Wired, dimostrava di avere chiara la natura imperscrutabile del proprio hobby: «Con il tempo ho capito che in realtà nemmeno servono canali di divulgazione, perché se una notizia va, va da sola, non ha bisogno di essere spinta. Queste cose sulle strategie della comunicazione non si finiranno mai di studiare perché, in fondo, è magia».
Tra i meme più efficaci dell’intero ecosistema digitale ci sono anche le teorie del complotto, prima tra tutti QAnon, che qualcuno ha giustamente definito la più grande narrazione della storia occidentale dell’ultimo secolo. Il meccanismo alla base della diffusione virale delle news che Maiolica definisce “magico” fa il paio col pensiero esoterico su cui si fondano tante credenze che prendono piede nelle piattaforme social. Il ricercatore Marc-André Argentino ha parlato di QAnon proprio come di una iper-religione cioè di «un simulacro di religione che forma i suoi precetti attingendo dalla cultura popolare, con la quale vive in uno stato di simbiosi», secondo la definizione del termine coniata dal sociologo Adam Possamai. Si rincorrono infatti nello scheletro di questa teoria del complotto rimandi a serie cinematografiche mainstream come Matrix (“la pillola rossa”) o Paura e delirio a Las Vegas (la loro fissa per l’Adrenocromo). Dopo la tanto discussa morte di Dio, insomma, narrazioni globali e misteriche come questa sembrano l’ultimo spazio concesso al discorso attorno al metafisico e all’invisibile. Non è una sorpresa, dunque, che tanti orfani della religione ci si buttino a capofitto.
Avvenimenti, fatti e teorie spiegate attraverso i sentimenti invece che con una logica stringente. Un sistema empatico che permette a persone tra loro simili, spesso affette dalle stesse carenze educative o affettive, di trovare una risposta semplice a un mondo complesso e risolvere così le proprie crisi esistenziali e dare un senso compiuto alla caotica esistenza che ci troviamo a vivere.
Diventa più facile affrontare la giornata pensando che una grande casa automobilistica voglia regalarci su Facebook una delle sue macchine così come lo è se siamo convinti che tutti i politici che disprezziamo fanno parte di una setta di vampiri pedofili che rapisce i bambini per bere il loro sangue. Nessuna di queste cose è vera ma intanto siamo riusciti a fare gruppo (o forse branco) con i nostri simili, sentendoci meno soli e trovando un ponte di comunicazione verso il mondo esterno. Quella della viralità non è una formula matematica, ma una costruzione emotiva.